Sara Camurri
Di Coronavirus, posto fisso e partita iva
Da un po’ di tempo rifletto sullo scrivere di quello che ho vissuto da Marzo 2020 ad oggi. Sento questo desiderio di condivisione pur essendo consapevole del fatto che non si tratti della storia del secolo, ma, probabilmente, di una tra le tante, tantissime storie di questo anno così incredibile. E spero anche che tra tutti questi vissuti ce ne siano molti dal lieto fine come il mio… Chissà.
Scelgo l’aggettivo “incredibile” riferendomi all'ultimo anno per esprimere una duplice accezione, negativa e positiva. In una quotidianità composta da un mix di realtà e surrealtà pandemiche posso permettermi di farlo. Almeno credo.
Beh, io parto e mettiamola così: partire è lecito, seguirmi è cortesia. :)

"Chiudiamo tutto"
È Febbraio 2020 e io sono una mamma nuova di zecca: tengo tra le braccia un fagotto di nome Dario con 2 mesi di vita, lo allatto e lo guardo dormire (sì, all’epoca, e sottolineo all’epoca, dormiva!) innamorandomi ogni giorno di più.
Si inizia a parlare di Coronavirus anche al di fuori della Cina.
Vabbè, sarà solo qualche caso isolato… Sarà un virus come tanti altri, passerà, ci faremo gli anticorpi.
NO.
Marzo 2020 mi risponde urlandomi in faccia un impetuoso “no” e prendendomi a schiaffi il cervello: ti sbagli Sara. Ti sbagli di grosso.
Ero in villeggiatura in Liguria qualche giorno col piccolo e i nonni per respirare un po’ di aria non padana quando risuonò “chiudiamo tutto, non ci si può spostare, tutti in casa, in lock down…”
Un attimo. “Lock” che? Come chiudiamo tutto? Ma che caspita sta succedendo? Black out nel mio cervello di neo mamma già bello schiaffeggiato e condizionato dagli ormoni del post partum e dell’allattamento.
Calma, stiamo calmi. Respiriamo a pieni polmoni quell’aria ossigenante che ci regala il Golfo dei Poeti, capiamo che possiamo tornare a casa, presso il nostro domicilio. E ci torniamo.
Da qui per qualche tempo il mio compagno lavora da casa, un appartamento di 70 metri quadri con una grande risorsa per il suo “smart working”, una stanza piena di tutine già troppo piccole e confezioni in formato scorta di pannolini.
Io me ne sto chiusa in casa con Dario che cresce e inizia a stare seduto da solo. Questo mi basta, mi aiuta ad affrontare tutto quello che sta accadendo con una strana positività che non conoscevo e non sapevo mi appartenesse. La maternità è anche questo.
Le cose non vanno benissimo...
Le cose però, oltre l’alone degli ormoni, non vanno benissimo.
Ormai è Maggio e una sera, mentre allatto sul divano, il mio compagno mi dice che no, le cose non vanno benissimo: stiamo perdendo entrambi il posto di lavoro. Sì. Stiamo perdendo “il posto fisso” (cit. Checco Zalone).
Presto dovremo salutare l’agenzia in cui ho lavorato e sono cresciuta negli ultimi 4 anni, quella in cui credevo e che credeva in me, in cui sarei rientrata dopo il congedo di maternità, in autunno.
E lui, beh lui perde la SUA agenzia. Quella per cui ha vissuto 18 anni vita.
Puff… Ciao. Per sempre.
Arriva l’estate, ma il sole che brucia sulla nostra pelle scotterebbe troppo anche con tre strati di protezione solare all’ombra: è quel sole che ci dice che non possiamo goderci l’estate in cui pare che il Coronavirus si sia indebolito un po’, perché ci dobbiamo reinventare professionalmente. Sappiamo che qualcosa faremo, siamo molto più fortunati di tanti altri.
Qualcosa ci inventeremo.
Imparare ad apprezzare i modi di dire
In effetti, in poco tempo qualcosa lo facciamo.
Qui nasce una nuova Sara, una madre più consapevole e una professionista che non vuole mollare. Qui capisco finalmente il senso di “non tutti i mali vengono per nuocere”, frase che, sinceramente, fino a ad allora avevo sempre snobbato e, come tanti modi di dire, avevo anche a tratti detestato.
Sì, è vero: non tutti i mali vengono per nuocere.
Sia mai che fosse arrivato il momento di fare ciò che la vocina dentro la testa mi sussurrava en passant già quando Dario era nella mia pancia?
Prendere coraggio, fare delle scelte, esporsi al rischio del fallimento, ma esporsi per provare a costruire il sogno nel cassetto sempre avuto, la voglia di mettersi alla prova per capire se si è in grado.
Lavorare come libera professionista.
"Sara Camurri - Freelance Copywriter": suona bene, anzi benissimo, ma che paura. Sì, ma anche “woooow,” che adrenalina, che entusiasmo… Cavolo, mi sento nel mio. Se mi sento bene quando penso a questa pazzia ci sarà un motivo, no? Ricordi quella vocina?
Cadere in primavera, rinascere in autunno
Settembre, l’inizio dopo quella che m’era parsa la fine.
Mentre Dario gattona in giro per casa costruisco mattoncino dopo mattoncino questa nuova me, restando nella mia essenza quella di sempre.
Passano i primi mesi da libera professionista e non si muove gran che, ma io sì che mi muovo: devo provare al mio massimo, non devo avere rimpianti.
Costruisco la mia rete e la coltivo. Smetto di seminare su terreni che scopro essere inadatti a me e vado avanti.
Dicembre: Dario compie un anno.
Io inizio ad ingranare. Iniziano ad arrivare le prime mail, le prime collaborazioni, i primi clienti...
Chiamo la mia ex collega grafica e le chiedo se abbia voglia di dedicarsi allo studio e alla proposta del mio logo. Lei dice sì. Io tocco il cielo con un dito.
Marzo 2021, un anno dopo: Dario cammina, corre, cade, scopre, interagisce. Io apro la Partita Iva. C’è (ancora) il Covid-19. Eccome se c’è. Lavoro come Freelance Copywriter a pieno ritmo e sono felice: non so descrivere questa felicità nelle sue sfumature ma la sento essere nuova, con un sapore diverso da quello che vivevo come Copy d’agenzia.
Non migliore. Diverso.
Ci saranno mesi sì e mesi no, lo so.
Mi sta bene. Questa è la cosa: mi sta bene. Per ora mi sta bene. La soddisfazione che provo quotidianamente nel mio lavoro come freelance è abbastanza, oggi è abbastanza.
Mi permette di vivere bene quella che provo come mamma e come compagna, come figlia e come Sara in un contesto ancora così tristemente intriso di realtà e surrealtà pandemica.
La svolta su strada secondaria causa pandemia
“L’incredibile pandemia” mi ha fatto svoltare.
Non so se questa sia la via in cui vivrò ancora per molto o per poco tempo, ma, signori miei, averla trovata dopo aver perso quella di prima è tutto.
Quella di prima l’avevo sudata un bel po’ ed era finalmente diventata più liscia, asfaltata come l’autostrada che mi ci conduceva ogni giorno, dritta, in salita, certo, ma con un panorama mozzafiato in cima che prima o poi avrei ammirato dall’alto. Ci stavo arrivando.
E invece eccomi qui sul vialetto della stradina secondaria di campagna, piena di curve, di ghiaia e di ciottoli. Così scomodi, pericolosi. Così belli.